martedì 5 marzo 2019

Lo ZX81 che cambiò tutto

38 anni e nemmeno un capello bianco!
Era il 1983 credo. O l'82, importa poco. Sì, forse l'82. A quei tempi non si sapeva mica che un computer avrebbe avuto una vita più breve di una lucidatrice. Che la lucidatrice che avevamo in casa aveva almeno trent'anni, beh trenta no, ma era degli anni '60 comunque, diciamo del '64-'65 e nell'82-'83 era maggiorenne lo stesso.

Era l'82 e il futuro prometteva di cambiare il mondo. Sì, poi l'ha fatto, lo fa sempre. Però mica come ci aspettavamo. Ma questo è un altro discorso. Era l'82, e l'ho detto, e c'era questo computer sul mercato già da un anno, il Sinclair ZX81. Che poi era la versione aggiornata dello ZX80, dove l'ultima coppia di cifre indicava l'anno d'uscita. Errore madornale oggi chiamare un computer con la data di uscita, dopo pochi mesi sembrerebbe già vecchio; ma allora c'erano le lucidatrici maggiorenni e avevo ancora in bella mostra la radio a valvole che quando la accendevi si illuminava lenta di un colore caldo e solo dopo parecchi secondi iniziava a parlare; e la TV da anni quando la spegnevi concentrava tutta la sua luce magica in un unico puntino che pareva un tunnel al centro dello schermo, non sai quante volte da piccolo ho appoggiato l'occhio a quel tunnel per sapere cosa si potesse vedere dall'altra parte, come fosse una finestra. Era un fascio di particelle in realtà e non so come abbia fatto io a non diventare cieco. Comunque gli oggetti duravano, non venivano aggiornati continuamente. Almeno io la ricordo così.

L'82. Un anno al diploma di maturità. Non ricordo che lavoretti facessi ma investii tutta l'imponente cifra di 149.000 lire per comprare il mio primo computer. Lo ZX81 appunto. Prometteva il nulla, ma era il futuro. Girai mesi a Roma per cercare l'offerta migliore, mica come oggi che dopo pochi mesi esce il modello più potente. Oggi nemmeno si usano più le lucidatrici per quel che mi riguarda. Ricordo il loro rumore infernale sul pavimento per spandere la cera, ricordo che poi si scivolava e c'era sempre una mamma a urlare "Usa le pattine, ho dato la cera!". Non mi mancano le lucidatrici. Il loro odore di cera calda sì. La mamma di più. Ma anche questo è un altro discorso.

Girai per mesi tutta Roma. Il Sinclair ZX81 lo vendeva la GBC ma poi c'erano altri importatori, negozietti, e oltre a essere più economici c'è il fatto che alla GBC erano proprio antipatici. Non so perché lo pagai 149.000 lire dopo aver girato mesi in cerca del prezzo più basso visto che il prezzo di listino ufficiale era 99.000 lire più IVA. IVA al 18%. Bei tempi. Forse lo pagai 117.000 lire e ricordo male. Ma ciò che resta non è ciò che è accaduto, no, è solo ciò che si ricorda.
Comprai lo ZX81 a Furio Camillo, un quartiere di Roma che negli anni successivi per un po' divenne il fulcro dei migliori negozi di informatica romani. Che mica si chiamava informatica. Si chiamava computer. Qualsiasi cosa era computer. Negozi di computer. Cassette per il computer. Esperti di computer. L'informatica era una facoltà universitaria, una cosa teorica. Qui invece grazie al signor Sinclair, poi meritatamente fatto baronetto dalla regina, il computer - tutt'altra cosa che l'informatica - era un oggetto economico, mai stato così economico, e semplice, che poteva essere acquistato da chiunque. Beh, sì, non serviva a un piffero, ma chiunque poteva portarselo a casa. Anche io. 149.000 lire, che non erano pochissime ma caspita, ci portavi a casa un computer, ti rendi conto? Che i computer finti fino a quel momento stavano solo nei film di fantascienza, erano cattivi, uccidevano tutti e alla fine morivano, sì, morivano, mica si spegnevano, proprio morivano, tra mille scintille sentenziando frasi che sembravano avere il punto dopo ogni parola. Articoli compresi. Che i computer veri fino a quel momento li avevano la NASA e il Pentagono e certo non li usavano per mettere online giallozafferano.it. E tu con 149.000 lire (o 117.000 se hai una memoria migliore della mia) ne portavi a casa uno. Più piccolo, sì, non parlava nemmeno con i punti a ogni parola, per fortuna non moriva tra mille scintille. A volte semplicemente non si accendeva e lo faceva in dignitoso silenzio, allora potevi aprirlo e con un saldatore smanettare un po', e spesso la colpa era solo dell'alimentatore. Ci ho messo più stagno in quell'alimentatore che non hai idea, alla fine pesava il doppio di quando l'ho comprato.

Lo ZX81 era piccolo, sì, e inutile, ma era un computer. Cacchio. Nel 1986 con uno ZX81 entrarono nella rete francese e misero fuori funzionamento il potente Cray-1, che al tempo era la Ferrari dei grandi computer per aziende miliardarie - macché Ferrari, era un autotreno Volvo per sceicchi, e questo era il Cray-1 che gestiva i dati degli esperimenti nucleari francesi a Mururoa, 'nimaccia loro. Ne parla pure Wikipedia. Dice che i ragazzi che fecero l'atto di hackeraggio, che al tempo non so nemmeno come si chiamasse un atto di hackeraggio, lasciarono il messaggio "Il vostro Cray-1 è stato momentaneamente sostituito da un semplice ed economico ZX81 Sinclair". Non c'era ancora l'emoticon della pernacchia altrimenti ce l'avrebbero messa.

Fui promosso con buoni voti, mi dedicai al computer. Quando lo portai a casa aveva un manuale dalla copertina bellissima, fantascienza pura, mai vista una copertina tanto bella in un manuale fino a che non comprai lo ZX Spectrum. Ma poi era tutto in inglese e io a parte lo scolastico "Hello doctor Green" pronunciato quasi come si scrive non è che fossi un drago in inglese. Però nel 1986 andai con mia sorella tre settimane in Inghilterra e Scozia e sopravvissi. Merito dei tentativi di tradurre il manuale.

La prima volta che lo attaccai alla TV rimasi a guardare lo schermo bianco con un cursore lampeggiante, un quadrato che se ricordo bene era nero con la K bianca sopra. Che lo ZX81 non aveva mica i colori. Rimasi affascinato da quella magia. Con la mente mi figuravo le mille cose che poteva fare quella macchina. Ma non sapevo chiedergliene nemmeno una, quindi restavo a guardare il cursore lampeggiare. Bello. Ammazza aò quant'è bello. Lampeggia. Guarda come lampeggia. Aspetta che imparo e vedrai. Ma intanto famme vede' come lampeggia. Bello il computer mio. Avesse la coda scodinzolerebbe, ma non ce l'ha, quindi lampeggia.

Mesi dopo nella fattoria marchigiana dei parenti con mio cugino pensai di fare bella figura: attaccai il computer (che era un vero portatile, piccolino e leggero) alla TV di campagna e in solo mezz'ora programmai un orologio. Dodici numeri neri disposti a cerchio e degli sgorbi quadrati che con un po' di fantasia avrebbero dovuto essere le estremità delle lancette. Rimanemmo a vedere quella magia in silenzio. Che lo ZX81 non aveva mica i suoni. Io immaginavo "mio cugino penserà che sono un genio". Lui rifletteva "Mezz'ora per tirare su uno sgorbio di orologio: che coglione, ce n'è uno proprio al muro". Altri tempi. La gente non era pronta a comprendere qualcosa che ancora non c'era e che non si sapeva a cosa diavolo potesse mai servire. Beh, detta così come dar loro torto?

Programmai i miei primi giochi. Pesci che mangiavano bolle che scorrevano grossolanamente sullo schermo. Pesci fatti con simulacri di coda, O maiuscole, parentesi aperte per la bocca aperta o un uguale per la bocca chiusa che si alternavano sullo schermo. Così: >O(  e  >O=  Chi mai a vederli dubiterebbe che si tratti di pesci. Direi più orate voraci del Tirreno anche se non me ne intendo. E le bolle erano "o" minuscole. Facile. Che lo ZX81 non aveva mica la grafica. Per giocarci dovevi essere seriamente motivato e anche così due ore di programmazione ti donavano dieci minuti passati a spostare orate del Tirreno prima di stufarti di un gioco tanto idiota, ma vuoi mettere? Usare il Basic di quella macchina per programmare era eccezionale, era come se i pensieri fossero una pasta informe che passavi attraverso il filtro della logica pura e ne uscivano spaghetti ordinati, dritti, allineati. Se non riuscivi a ordinare così perfettamente i pensieri non potevi programmare. E sì, che ora puoi permetterti di sprecare righe di codice quante ne vuoi, qui al lavoro non so nemmeno quanti gigabyte di memoria abbia il mio computer, il Mac di casa credo ne abbia 16 o forse il doppio, è così ampia che non mi interessa sapere la cifra. Ma prima no. Che lo ZX81 non aveva mica una memoria. Aveva 1 kilobyte, 1 Kb!: prendi i 16 Gb del mio Mac, li dividi prima per 16 e poi per un milione, rendo l'idea?, diciamo qualcosa capace di contenere solo il testo di un unico foglio dattiloscritto con 30 righe di 60 caratteri, poi stop. E in quello spazio ci doveva stare il programma, la gestione di ogni punto dello schermo, le variabili e non ricordo più cosa. Come dire: siete in 4? Prendete quella Smart per due, ma entrate con attenzione che dentro già c'è un comodino, una lampada a piantana e la nonna con la sua poltrona preferita, lei senza la sua poltrona non si muove di casa. Pare nulla ma al tempo era abbastanza: c'è chi in quella caccola di spazio ha addirittura programmato il gioco degli scacchi. Giuro. Ordine mentale perfetto, gestione delle risorse al massimo, genialità pura.

Lo ZX81. La Sinclair stava raggiungendo i 140 dipendenti; sir Clive Sinclair, il fondatore, era un genio classe '40 che aveva il pallino del rendere economiche e portatili le cose elettroniche costose. Fece calcolatrici minuscole alla portata di tutti quando solo pochi potevano permettersi quelle da scrivania, diffuse i computer, inventò sciocchezze come le prime inguardabili TV piatte e un triciclo elettrico ottimo per suicidarsi, il C5, tanto basso che per farsi vedere dagli autisti delle automobili si doveva aggiungere un'asta alta con una bandierina. Ora sir Sinclair è un arzillo vecchietto che due anni fa ha divorziato da una gran topa giovanissima e produce bici ripiegabili a Londra. Chiuse la sua azienda di computer nel 1985. Perché i computer divennero molto diversi dalle lucidatrici. Fare cose economiche e durature non era più competitivo. Steve Jobs invece con costosissimi  prodotti a obsolescenza programmata rinnovati ogni anno ha fatto della Apple il primo brand al mondo. Strana la storia.

Era l'82, ora ne sono sicuro. Nell'82 presi lo ZX81. Perché a fine '83 passai allo ZX Spectrum, l'incredibile evoluzione dello ZX 81: 48 Kb di memoria anziché 1, colori, grafica, suoni. Beh, suoni. Suoni no, erano biiip più o meno acuti. Che però tecnicamente erano suoni. E i colori erano solo 8, quasi tutti inguardabili. Certo non brutti come quelli del Commodore 64, il suo concorrente. Ci sono ancora lotte tra i fedeli dello Spectrum e quelli del C64. Non dipende dalle caratteristiche tecniche delle macchine scegliere quale fosse superiore, dipende dall'amore. Al tempo questo si provava per il proprio computer.

ZX Spectrum. Sembrava che Sinclair avesse imparato la lezione di non mettere più la data di uscita nel nome, niente ZX82. Invece fece peggio: pubblicizzò quella che era la grande novità, i colori, con il nome Spectrum. "Comprate me, ho i colori gente, i colori! L'ultima meraviglia per i computer! Dove lo trovate un altro cosobuffo che costa così poco con i colori?"
Bum: appena uscì lo Spectrum tutti i computer casalinghi avevano già i colori. Come se oggi la Fiat pubblicizzasse il modello "io ho anche le ruote! E il volante è in omaggio, ma quello rotondo, un cerchio perfetto, che fa pendant con le ruote, perché io ho anche le ruote eh". La Commodore, furba come solo il vecchio Jack Tramiel poteva essere, commerciante come solo l'America sa essere, sottolineò nel nome il punto di forza del prodotto, la memoria: C64, ben 64 Kb di memoria contro i 48 dello ZX Spectrum. Partita vinta, USA-UK 1 a 0. Poco importa che poi la memoria usabile fosse superiore nello ZX Spectrum, è il marketing dolcezza.

Vendetti lo ZX81 per comprare lo Spectrum accecato dal futuro, dai colori, dai biiip. E poi mi sentii come uno che vende il proprio bastardino affettuoso per comprarsi un altro cane più bello. Carogna ingrata. Ho ricomprato lo ZX81 pochi anni fa per nostalgia e per sensi di colpa, mi sono sempre considerato un idiota per aver venduto il mio primo computer. Quindi ora ho uno ZX81, ma non è il mio ZX81.

Il mondo nell'83 dello Spectrum e del C64 non era cambiato: la gente comune ancora si chiedeva con sorrisetto di sufficienza cosa ci trovassi in quelle macchine inutili, spenderci soldi e tempo e non servivano proprio a nulla. Odio i sorrisetti di sufficienza. In edicola c'erano due sole riviste sui computer, poco più che ciclostili, e stavano sempre vicine alle riviste porno. Un ragazzo che passava tempo sul computer appariva come uno sfigato; uno che se avesse avuto rapporti sociali avrebbe passato altrimenti le sue serate. Ora, beh, ora è un altro mondo. Ora si sa per certo che chi passa le serate al computer è uno sfigato. Ma si può invocare l'aver passato la serata al computer per l'esigenza di lavorare/studiare/creare così da darsi un tono.

Perché ti parlo di tutto questo? Perchè oggi, proprio oggi, lo ZX81 compie 38 anni. Fu lanciato il 5 marzo 1981.
38 anni fa nacque l'oggetto che mi prese i pensieri ancora impastati, li passò nel filtro e ne fece ordinati spaghetti tanto lineari che Spock ne sarebbe fiero.
38 anni fa crearono l'oggetto che mi fece sentire un genio nel perdere solo mezz'ora per vedere un rachitico orologio silenzioso su una TV in bianco e nero.
38 anni fa qualcosa mi avrebbe reso divertente far mangiare bolle a pesci di parentesi e lettere pigiando su tasti di membrana (che lo ZX81 non aveva mica una tastiera vera).
38 anni fa un oggetto inutile aveva così pochi comandi che anche uno come me poteva impararli su un manuale di lingua sconosciuta e accedere a quella che sarebbe poi diventata l'informatica con semplicità, gestendo pochi strumenti e imparando a ottimizzarli per necessità.
38 anni fa qualcosa dimostrò al mondo che anche il piccolo è abbastanza, che il futuro non aspettava più, che la rivoluzione iniziava così, dai ragazzi che risparmiavano la paghetta per un sogno giudicato idiota da tutti gli altri.

Ecco, questa è la mia storia, che sarebbe stata differente se nell'81 sir Clive Sinclair avesse già scoperto la sua vocazione di latin lover tardivo e avesse preferito le gran tope al posto del sogno di diffondere i computer nelle case di tutti. Stamattina quindi ho preso il mio-non mio ZX81 e l'ho guardato con un sorriso. Perché a volte ci sono momenti, oggetti, luoghi, che sono precisamente là dove qualcosa è cambiato e la vita ha preso un'altra strada, quella che mi ha portato qui. Non sempre si riesce a capire quale fu il momento, l'oggetto o il luogo causa di un cambiamento, anzi quasi mai. A volte. Stavolta sì. Grazie allo ZX81 ho amato lo Spectrum; con l'esperienza in programmazione (Basic, capirai!) ho iniziato a lavorare ai database DBase III per le librerie d'antiquariato nell'83; con i soldi guadagnati sono andato avanti con le mie passioni e ho avuto un'alternativa quando Odontoiatria iniziava a starmi stretta, accettando un posto di lavoro da tecnico del computer e segnando il mio futuro sin qui.
Ora se mi danno dell'informatico penso sia una bugia, una frottola. Come darmi del proprietario terriero solo perché ho un sacco di terriccio Compo Sana per gerani. Al tempo ero uno dei ragazzi del computer e dopo 38 anni posso accettare un lecito dubbio sulla parola ragazzo ma il succo è quello.
Ho una vita legata all'informatica, ero lì quando è nata, ci ho creduto, l'ho amata, nel tempo mi sono sentito tradito e valorizzato alternativamente. L'ho vista nascere, crescere, trasformarsi, invaderci. L'ho seguita fino a condurmi e condurci sino a qui, ora. Il mio, il nostro presente è nato esattamente 38 anni fa. E so bene quando, dove e da cosa tutto questo è nato. Quel piccolo giocattolo fu la chiave di volta tra il mondo che c'era prima e quello che c'è ora. E noi eravamo lì.

Grazie sir Sinclair. Auguri ZX81.

venerdì 25 maggio 2018

Prima l'Italiano. Per favore.

Ci sono diverse semplificazioni con cui posso essere d'accordo.
  "Prima gli onesti" per esempio. Già con "prima chi ha diritto" non mi sento a mio agio perché spesso i diritti sono assegnati in modi opinabili. Preferisco di gran lunga "prima chi ha più bisogno". Quasi mai chi ha più bisogno è chi ha più diritto.
  Una semplificazione che da tempo piace a molti è "prima gli italiani". Immediata, diretta: a casa propria siamo noi ad avere tutti i diritti. Ma, come dicevo, i diritti sono opinabili, tant'è che sparare a un malintenzionato che ci si è intrufolato in casa viene ritenuto un diritto da alcuni e una mostruosità da altri. i diritti sono come i pareri, non sono mai universali. Insieme alla morale (e alle risposte, dice Kulekov, e alla realtà, dice un saggio proverbio indiano) cambiano con i tempi e con i luoghi.
  A casa nostra siamo noi ad avere tutti i diritti. O almeno le precedenze. Ma una casa è una proprietà, qualcosa che abbiamo deciso noi di avere, qualcosa per cui ci siamo sacrificati guadagnando il necessario per affittarla o acquistarla. L'Italia davvero è la nostra casa? Che cosa abbiamo fatto per essere italiani, quando abbiamo deciso di diventarlo, quali sacrifici abbiamo pagato?
  La realtà è che un italiano è italiano per puro caso. Per un periodo chi nasceva in Etiopia era italiano. Questione di caso e di confini. E si possono assegnare diritti in base al caso? Folle.
  "Prima gli italiani" la trovo una semplificazione immonda. Tanto vale dire "prima i biondi" e segregare chi ha i capelli rossi. "Prima chi è più alto di 1,70". 
Ma – è lecito opinarmi – molti extracomunitari vengono qui a delinquere, o anche solo a prendere i soldi dello Stato. Ecco: allora il problema non sono  gli extracomunitari, almeno non  quelli che esercitano il loro diritto di sopravvivere fuggendo da condizioni che noi per primi non accetteremmo mai e affrontando viaggi infernali verso Paesi stranieri che non li vogliono. Anche i miei antenati fuggirono dalle Marche per trovare fortuna in America nei tempi difficili, nei tempi in cui i nostri migranti venivano trattatati come pidocchi e mafiosi solo perché il caso non li aveva fatti nascere negli Stati Uniti. No: il problema sono i disonesti. Quindi "prima gli onesti" identifica la vera soluzione, anche se inutilmente visto che "prima gli onesti" promette ciò che da sempre la Legge ha il dovere di garantire. Ma di certo "prima gli italiani" non ha senso. Conosco stranieri stupendi e onesti con cui sono felice di condividere la mia città, e conosco italiani con cui mi vergogno di spartire la nazionalità. Un condannato riconosciuto in affari con la Mafia dal Tribunale siede al Governo e parla con il nostro Presidente mummificato. Il problema sono i disonesti, altro che "prima gli italiani".

E ora basta col pippone antirazzista.
  Era solo una scusa per attirare l'attenzione su questo slogan creato per accalappiare i voti delle menti semplici facendo leva sulla rabbia e sui diritti (ahi, sempre i diritti) che abbiamo per nascita (e quindi non meritati).
Perché vorrei fare mio questo "prima gli italiani" trasformandolo poco poco nell'ortografia ma profondamente nel senso:
  "Prima l'Italiano".
  Ecco.
  Essere italiani è un caso. Parlare italiano è una cultura. Lo abbiamo studiato, ne siamo diventati padroni, ne assaporiamo la storia e l'evoluzione: hai mai letto... "Dante?" viene da pensare. E no, Dante l'ho apprezzato per la sua fantasia narrativa, forse per il suo ruolo storico, certo non per il linguaggio che trovo poco incline al mio gradimento. No: hai mai letto Giovannino Guareschi? Autore più recente, di cui possiamo godere meglio il costrutto delle frasi, i tempi delle immagini dipinte con parole che stiamo dimenticando ma a leggerle appaiono in tutto il loro splendore mostrando una grandezza che stiamo perdendo.
  E perché la stiamo perdendo?
  Per tre motivi. Dai, mettiti l'anima in pace che te li spiego.

Primo motivo: la brevità imperante.
  L'Italiano non è fatto per essere interrotto. Non è come l'inglese, dove con poche sillabe descrivi tecnicamente un quadro. Ho sempre in mente il ritornello di una canzone popolare che nella versione originale cantava su tre sole note "please don't go", ossia un lunghissimo "per favore non andartene via" che trasforma l'abbaiare di tre note in un discorso dove poter mettere accenti, espressioni, dove ogni parola ha un senso unico. Nella versione italiana quella canzone recitava sulle stesse tre note un semplice "sì o no", perché l'italiano in tre sillabe sa dire poco. "Ti amo è di tre sillabe e vuol dire tanto". No ragazzi, "ti amo" è uno stereotipo vuoto come tutte le espressioni brevi nella nostra lingua: vuol dire tanto, che so, "hai cambiato il mio mondo, mi hai reso vivo come non sono mai stato e non riesco a pensare di restare un solo secondo senza i tuoi occhi in cui perdermi". Questo acquista valore. Non la breve frase standard per comunicare uno stato emotivo classificato in modo spersonalizzato e universalmente accettato a creatività zero.
  Dicevo: l'italiano è una lingua per veicolare sentimenti ed elucubrare approfondimenti. Usa frasi lunghe e finché ha mantenuto il ruolo appena descritto la sua evoluzione non ha mai portato a un accorciamento delle frasi. L'italiano è come una sinfonia emotiva, completa e artistica, quando invece l'inglese è un motivetto pubblicitario diretto, crudo e breve.
  Ma il mondo è trainato dall'inglese, come vedremo nel terzo motivo per cui stiamo perdendo la grandezza della nostra lingua, e l'inglese è sintetico, non permette orpelli, va diretto al nocciolo della comunicazione. L'informatica è nata in lingua inglese e ha conquistato il mondo. Finché sono i linguaggi di programmazione a soccombere al dominio dell'inglese bene, sono contento: l'inglese è una lingua essenziale, cruda, tecnica, discretamente precisa. Per un linguaggio informatico è quasi perfetta. Ma poi con l'invasione dei social (eccomi soccombere al dominio inglese) l'inglese ha fatto da stampo per ogni esigenza: SMS di 256 caratteri, Twitter che nasce sugli SMS fa suo questo limite, su Facebook si può scrivere in ridicole porzioni di schermo, e così via. Certo: in inglese il fenomeno please don't go rende superflui gli spazi enormi, basta poco per descrivere i nostri pensieri semplificati e spogliati di ciò che non è essenziale.
  Ma in italiano no. Però ci siamo adeguati, abbiamo iniziato a usare WhatsApp e messaggistiche da telefonino dove la brevità è un'esigenza, messaggi di dieci righe sembrano ormai enormi. Questo commento che sto scrivendo è troppo lungo, richiede tempo per leggerlo e sono sicuro che dei tre lettori che ho forse uno arriverà sin qui ma gli altri avranno già rinunciato: perché abituati a scrivere poco, a semplificare all'osso cadendo negli errori come con "prima gli italiani", ora siamo anche abituati a leggere poco. Intendiamoci: leggiamo miliardi di messaggi, di notizie, di commenti, che messi insieme formano un volume di parole ben più lungo di un libro. Guardandola in questo modo potremmo dire che mai l'umanità ha letto né scritto così tanto, ogni fascia sociale è persa nel suo telefonino e legge, legge, scrive, legge e legge. Ma ciò che viene letto sono solo ciliegie che non saziano, concetti brevi non approfonditi, che si scorrono in un attimo e l'attimo dopo si passa al concetto-ciliegia successivo. Sviscerare – come la nostra lingua così prolissa richiede e invita a fare – significa, per fare un paragone alimentare, masticare quella ciliegia anziché mandarla giù sana, significa prepararla a essere digerita, a entrare a far parte di noi. Se non svisceriamo l'argomento è come se ingoiassimo il frutto con tutto il nocciolo col risultato poi di trovarlo tale e quale nel nostro cesso (cesso: parola di italiano corrente, erroneamente ritenuta volgare, a cui le mode hanno sostituito l'errore inglese di water, cioè acqua, che nella lingua originale si completa in water closed, acque a circuito chiuso, tecnico e descrittivo dell'ingegneria del sistema usato come solo l'inglese sa fare, da noi riportato parzialmente privandolo di ogni senso e sostituendolo a un termine preciso preesistente, cesso. Mark Twain si arrabbiava quando qualcuno lo chiamava solo "Mark" o "mister Twain" visto che il suo soprannome indicava l'urlo dei battellieri che scandagliavano il fondo del fiume per vedere se la profondità permettesse allo scafo di passare e "segna due!" era l'urlo del misuratore che indicava la profondità minima per la sicurezza del battello: dire solo "segna" o addirittura "signor due" era senza senso, parimenti dire solo "water" o solo "closed" è, come anticipavo, un errore.)
  Torniamo a noi. Leggiamo più che in ogni altra era ma non digeriamo nulla di quello che ingoiamo. Ma è il ritmo della vita, quello che pian piano è diventato la normalità, il quotidiano. Eccesso di informazioni, tutte brevi e autoconclusive, superficiali. Ogni settore della società si è uniformato: hai visto i siti dei quotidiani? I giornali, che nell'impaginazione cartacea hanno in prima pagina poche notizie, con grandi articoli e foto esplicative, una volta in rete eccoli trasformati in grosse pagine piene di piccoli riquadri zeppi di notizie, ognuna descritta in pochissime righe, con immagini ridondanti messe lì quasi a sostituire il testo che non c'è stato spazio per scrivere. E il telegiornale in TV? Mentre l'annunciatore parla e i servizi scorrono c'è in basso una barra con le micro-notizie; la nostra attenzione viene divisa tra l'ascolto e la lettura che raccontano di cose differenti, abbiamo l'attenzione in preda alla schizofrenia e chi ne paga le conseguenze è la capacità di apprendere e gestire le informazioni ricevute.
C'è un risvolto clinico in questo: l'eccesso di informazioni unito all'incapacità di gestirle provoca depressione, stress, nervosismo. E vediamo che negli adolescenti i casi di depressione, ansia, crisi di panico, problemi comportamentali non sono mai stati così alti. Ci sono anche altre ripercussioni: hai mai notato in pizzeria gruppi di ragazzi che anziché dialogare tra loro sono tutti persi nei propri cellulari? Ma questo, come l'aumento di danni alla cervicale per postura scorretta continuativa, non ha a che fare con la lingua italiana, oggetto di questo testo, quindi torniamo sull'argomento.
  Ci siamo abituati al breve, al molteplice, al mordi e passa al prossimo. Alla superficialità. E questo si ripercuote sulla nostra lingua. Più che le abbreviazioni da SMS che tanto impensierivano i cultori della lingua, il problema è proprio nel messaggio, che richiede sempre più un mezzo simile all'inglese e si trova scomodo nell'italiano. Tanto scomodo da promuovere l'uso delle faccine, rapido metodo per veicolare emozioni, nate per la lingua inglese così arida e, ripeto, tecnica, che vanno sostituendo la necessità di formulare frasi più complesse.
  Insomma, andiamo verso una comunicazione votata alla brevità, all'efficienza pratica, alla superficialità, priva di inventiva e di emozioni originali (un cuoricino sostituisce molte parole ma che pena pensare alle splendide lettere dei miei nonni, lui al fronte e lei ad attenderlo a casa, riscritte oggi con le emoticon!). L'italiano non è adeguato, si rende necessario trasformarlo e perdere la ricchezza che rende questa lingua probabilmente unica, abbreviare le esposizioni e disimparare il piacere della lettura a favore dell'immediatezza del messaggio necessario e temporaneo. Stiamo perdendo la nostra lingua.

Secondo motivo: l'interruzione.
  Scrivevo proprio ieri a un carissimo amico. E gli scrivevo via mail anziché su WhatsApp, proprio per avvalorare la mia tesi. A parte il problema di poter sviscerare meglio i concetti su uno spazio come quello della mail, il sostituto della posta tradizionale, che ha lo svantaggio di perdere la gioia di osservare la calligrafia dell'interlocutore e in essa i segreti del suo carattere ma ha il vantaggio di poter più facilmente correggere gli errori nel testo prima della spedizione, a parte questo la messaggistica odierna ci ha portato un altro indubbio svantaggio: le interruzioni.
  Quando arriva un messaggio o una notifica o una richiesta di attenzione il nostro dispositivo elettronico è programmato per farsi notare. I suoni vengono studiati per non essere ignorati altrimenti il concetto di messaggistica immediata perderebbe di significato.
  Col risultato che in ogni momento i nostri pensieri possono essere interrotti dal trillo di chiunque, persona o applicazione, che decide sia il momento giusto per pretendere la nostra attenzione.
  Il solo pensare "non ora: lo leggerò poi" ha già interrotto il nostro filo di pensieri, ci ha distratti. E come abbiamo appurato l'italiano è una lingua riflessiva, che richiede i suoi tempi: non è compatibile con le interruzioni, le distrazioni. Se siamo in un ambiente pubblico ogni telefono di ogni persona urlerà la sua esigenza e immediatamente tutti i pensieri della gente intorno verranno catturati prioritariamente, costretti a ponderare anche un solo "no, non è il mio cellulare" prima di tornare liberi. Ma un pensiero interrotto non è come una pausa ottenuta premendo il pulsante sul telecomando durante un film: il film riprende dal punto esatto in cui si è fermato, il pensiero no, perde parte della sua strada, ne deve ricostruire una che non può essere la precedente, perde un po' dei riferimenti del percorso che ha elaborato sino a quel momento. Si impoverisce. Hai mai vissuto l'esperienza di scrivere una mail o solo un messaggio lungo e di perderlo prima di spedirlo, così da doverlo riscrivere da capo? Ecco, il messaggio riscritto ci porta nervosismo, insoddisfazione, è sempre più povero rispetto al primo messaggio. Così accade per i pensieri interrotti. Stress e un risultato inferiore al dovuto.
  Abituarsi a tale ritmo non significa sfuggire a queste brutte conseguenze: significa solo imparare a ignorarle, a renderle parte delle cose inevitabili, accettarle senza più prendere in considerazione né i danni che portano né le alternative. Rinunciare al nostro diritto di inseguire un pensiero in libertà.
  Io a casa scelgo di spegnere il cellulare, elimino le notifiche dal computer, mi dedico a quello che devo fare o a chi ho davanti dandogli la priorità assoluta. Mi rammarico quando parlo con un amico e quello, sentendo un messaggio in arrivo, apre il cellulare per leggerlo e magari per rispondere: ma quella è una sua scelta, non la mia, anche se interrompe pure me.
  La lingua italiana non è fatta per essere interrotta. Noi pensiamo usando la lingua italiana. Quindi i nostri pensieri non sono fatti per essere interrotti. Stiamo perdendo la lingua, stiamo perdendo la capacità di pensare, oltre quella di descrivere i nostri pensieri. Oggi non solo non potremmo più scrivere testi come quelli di Giovannino Guareschi ma c'è sempre meno gente che potrebbe leggerli.

Terzo motivo: l'invasione dello straniero
  E no, qui non parlo di nuovo di extracomunitari: anzi.
  Lo straniero nella lingua italiana è l'inglese.
  Io lavoro in un ufficio, ho a che fare con l'informatica. Sono bombardato da jobs, meeting, workshop, planning e così via. Ora, c'è davvero bisogno di questa invasione?
  Quando ho imparato a pilotare gli aerei il mio istruttore mi fece vedere la posizione per mettere la manopola del gas, l'equivalente dell'acceleratore di una automobile, nella posizione di idle. Poi si sentì in dovere di precisare: "non mi piace usare l'inglese ma a volte ha termini più brevi dell'equivalente italiano e mentre piloti può essere importante essere veloci a comunicare. Così ti dirò solo idle anziché chiederti di portare la manetta al minimo."
  A volte il termine inglese ha un motivo per essere usato. Molte volte invece lo si usa per pigrizia. Una volta bisognava fare uno sforzo mentale per trovare l'equivalente inglese di un concetto italiano: oggi spesso è il contrario. E più usiamo termini inglesi comuni là dove potremmo senza problema usare quelli italiani, più la nostra lingua si impoverisce. Ricordi 1984 di Orwell? Impoverire la lingua, standardizzare le espressioni, significa impoverire la cultura, la capacità di elaborare pensieri. Le parole sono i nostri strumenti, qualunque meccanico o artigiano se vede ridotti i suoi strumenti di lavoro sarà sempre meno in grado di lavorare.
  Gli extracomunitari che tanto preoccupano gli elettori non ci hanno rubato un solo pensiero, non ci hanno trasformato una sola parola.
  La lingua inglese viceversa ci ha impoveriti, uniformati, ci sta togliendo l'identità culturale, le peculiarità della nostra lingua. Parlare un italiano mozzato, interrotto, con locuzioni sostituite da standardizzazioni inglesi, è come vedere i nostri centri storici ormai tutti uguali dove campeggiano sempre le stesse catene di multinazionali a nascondere le peculiarità architettoniche con i loro loghi, neon, con merci che nulla hanno a che fare con quel centro storico. È un'invasione commerciale che pian piano copre i nostri colori sostituendoli con altri uguali in tutto il mondo, distraendo dall'architettura per colpirci con i prodotti in vendita. "Non guardare questa città unica, guarda la mia vetrina, questa con prodotti uguali in tutto il mondo. Non usare le peculiarità dell'italiano, sii breve e diretto con queste parole usate ovunque."
  Mia moglie mi fece notare come l'invasione fosse letale, sovrascrivendo persino il passato: la parola "media" ad esempio viene da tutti pronunciata all'inglese, "midia". Mentre deriva dal latino, e gli americani non sapendola pronunciare con la dizione originale l'hanno fatta propria. E non è il caso peggiore: non ti è mai capitato di leggere "aut aut" scritto "out out"?
  A volte si tratta solo di pigrizia, di accettare senza pensare quello che ci viene chiesto e di pagarne il prezzo senza rendercene conto. Ci sono stati movimenti contro un islamico che chiese di togliere il crocefisso dalle aule scolastiche come se questo ci privasse della nostra identità nazionale mentre non solo non facciamo nulla per arginare l'indottrinamento anglofono che ci ruba davvero il nostro modo di pensare ma lo incoraggiamo e ne abusiamo. (Una nota non ce la faccio a evitarla: il crocefisso in classe non è sintomo di italianità, anzi. È un accordo becero tra il fascismo e lo Stato straniero del Vaticano, è uno dei prodotti nefasti dei Patti Lateranensi. La religiosità di uno stato laico ha il diritto di essere manifestata, sì, ma nei luoghi di culto, non dove i nostri figli apprendono quale sia la verità scientifica e umanistica. Chiedere di togliere il crocefisso dalle chiese è un abominio, chiedere di toglierlo dalle aule, o se ce ne fosse bisogno dalle stazioni, o dalle cabine telefoniche, è una richiesta sensata. Lo scopo del Vaticano era inculcare ai piccoli l'idea che il cattolicesimo fosse l'unica verità, con l'inganno della monopolizzazione delle aule. Togliere l'insulso crocefisso dalle aule è un segno di rispetto non verso la comunità islamica ma certamente verso la nostra libertà di pensiero e di culto sancita dalla nostra Costituzione, e una condanna verso un regime fascista che ci ha imposto la dittatura anche con questi gesti coatti. Se poi pensiamo che gli italiani si identifichino col cattolicesimo, bene, ricordiamoci delle opposizioni che ebbe lo Stato Vaticano quando tentò di governare stralci del nostro Paese, ricordiamoci di come si sia sempre intrufolato a forza nei giochi di potere e per questo sia stato condannato dal popolo, e riflettiamo che se mai sia esistita una religione davvero italiana allora il cattolicesimo è un piccolo fenomeno collaterale rispetto all'imbarazzante politeismo di Giove e compagnia bella, l'unica religione che fu accettata dagli italiani secoli fa, politeismo di Stato che si trovò a combattere solo con la religione dei celti, molto più interessante ma relegata dalla storia a un ruolo più marginale.)

Sto diventando polemico, lo so. Quindi concludo con un piccolo manuale di sopravvivenza del pensiero libero.
  Usiamo gli strumenti adeguati alle nostre necessità, lingue incluse, ma valutiamo quali strumenti ci servono di volta in volta. Nel caso in cui una parola italiana e una inglese siano equivalenti, usiamo l'italiana. Per favore. Pensiamo a quale parola italiana potrebbe sostituire quell'inglesismo che ci è venuto subito alla mente per completare la frase.
  Facciamo pause, svisceriamo gli argomenti, freghiamocene delle esigenze della rete di cedere alla rapida superficialità. Scegliere la parola migliore è segno di rispetto per l'interlocutore, è allenamento per l'intelligenza, sviluppa la capacità di esprimere sempre più precisamente i nostri pensieri: e questo si ripercuote sulla nostra capacità di pensare.
  Arginiamo l'inglese. La lingua italiana ha delle regole per l'introduzione delle parole straniere: applichiamole. Ad esempio le regole grammaticali italiane non vengono mai sostituite da quelle della lingua straniera che ci accingiamo a usare. Nel plurale di computer per esempio dobbiamo dire "i computer", non "i computers". Sembra strano ma non lo è: da decenni il plurale di bar è sempre stato bar, il plurale di bus è bus e siamo vissuti felicemente senza affibbiargli la -s o la -es finale.
  Le parole straniere in un testo italiano vanno scritte in corsivo. Questo le identifica come intruse, come non facenti parte del nostro parlare, le ghettizza nella giusta misura. Questa regola grammaticale porta difficoltà, lo riconosco, perché molte parole come bar citata poco sopra ormai fanno parte integrante della lingua italiana (buffo: all'estero i bar, che qui chiamiamo con questo termine straniero, si chiamano con una parola italiana storpiata, cafè). Parole come computer, mouse, display sono parte del nostro linguaggio. E se la parola display può essere sostituita da schermo, sarebbe ormai ridicolo sostituire mouse con topo. Alcune nazioni lo fanno, in Spagna il mouse è el raton. Per noi è troppo tardi.
  Gli acronimi pronunciati in italiano seguono la dicitura italiana. C.S.I. è l'orrendo "si es ai" solo nei Paesi di lingua inglese ma da noi la grammatica pretende che sia "ci esse i". Stiamo pronunciando lettere, non parole straniere. Anni fa lavoravo all'helpdesk (in corsivo ovviamente) della mia azienda e i portatili avevano le porte PCMCIA. Era già orrendo pronunciare la sigla in italiano, prova a pensarla in inglese. Sono felice che siano sparite. Ora esistono grazie al cielo le "u esse bi" e nessuno qui si azzarda a chiamarle "iu es bi". Strano visto che alcuni acronimi sono duri da diffondere in italiano, come F.B.I., U.S.A., H&M.
  I nomi propri normalmente non vengono tradotti né scritti in corsivo: io sto scrivendo con un Mac Apple, non con un "pi ci" Windows, ad esempio. Essendo nomi propri non hanno traduzione nonostante usino parole che intendono anche oggetti comuni. Mark Twain non è Segna Due, io non sto usando una Mela al posto delle Finestre di Microsoffice. La traduzione in questi casi farebbe perdere il significato.
A volte si preferiscono termini inglesi piuttosto che parole italiane difficili, con la scusa che chi ascolta o legge potrebbe non conoscere la parola difficile: sbagliato. Meglio imparare una parola italiana, soprattutto se poco usata, piuttosto che ricadere in un luogo comune non italiano. Che oltretutto non tutti sono obbligati a conoscere.
  Se parliamo in inglese, bene, usiamo quella lingua al meglio delle nostre possibilità. Ma se parliamo in italiano usando inevitabili termini inglesi non siamo affatto obbligati a dimostrare al mondo la nostra conoscenza della lingua straniera, quindi seguiamo le regole dell'italiano e la pronuncia più comprensibile per un italiano. Io piloto un biplano Bücker (senza corsivo, è un nome proprio), se ne parlo con un tedesco uso la sua dicitura originale dove la ü suona un po' come u e un po' come i, ma se parlo con un italiano gli semplifico la vita dicendo Bucker con una u normalissima, come in "buco": non devo dimostrargli che conosco la pronuncia, devo fargli capire di cosa parlo. Nelle riunioni di lavoro dove c'è il purista che proclama in abbondanza i termini inglesi come se avesse una castagna bollente in bocca, alla maniera di molti americani, è evidente la mancanza del concetto che comunicare significa farsi capire.

Prima l'italiano.
  Ho scritto questo commento (stavo per chiamarlo post, ahimè) evitando parole non italiane dove ne avevo la possibilità, usando la tendenza di sviscerare l'argomento tipica del nostro linguaggio, cercando di usare le parole necessarie senza sconti e pensando che sto comunicando pensieri, non sfoggiando parole.

  In altre parole ho scritto un testo disperatamente fuori moda. Probabilmente è troppo tardi, siamo colonizzati, invasi, succubi di una lingua, di un modo di pensare che ci impoverisce. Ma nel mio piccolo dovevo dirlo: per favore, prima l'italiano.

venerdì 21 aprile 2017

Non è mica facile scrivere fantascienza!

Colosseo, gladiatori  Natale di Roma? 2770 anni fa due fratelli litigarono per il nome da dare a un investimento edilizio e ci scappò il morto. 800 anni dopo l’imperatore Claudio decise di festeggiare quella data, ma porca vacca dovevano passare altri 1500 anni prima dell’uso dei calendari affidabili, quindi Claudio ricavò la data dai calcoli astrologici, che è come scrivere la storia d’Italia basandosi su Novella 2000 e Cronaca Nera. E oggi, 27 secoli e mezzo dopo quell’omicidio, sotto lo scheletro dell’arena dove ci si ammazzava per spettacolo ci sono signori seri con poco plausibili uniformi di metallo e stoffa rossa a cui va tutta l’attenzione di ogni telefonino, palmare e smartphone presente nei dintorni.


   Una delle cose che adoro della fantascienza è la caratteristica di vedere ciò che è sotto gli occhi di tutti con significati nuovi. A volte basta cambiare una parola, come da risorto a non morto, ("La Pasqua: Anche quest'anno si è celebrato contemporaneamente l'alzarsi in cielo di un non morto e la fuga di un popolo attraverso un mare temporaneamente prosciugato da un dio, festeggiando con uno sterminio di cuccioli da sbranare e un rompere uova di cioccolata a pugni. No, in questo mondo non è mica facile scrivere fantascienza") o astrarre dal contesto un singolo evento, e tutto cambia. Una volta un mio amico definì "embrioni uccisi col calore e uniti a pezzi di pancia spellata" le semplici uova e pancetta, orripilante ma efficace. Non mi piace l'orripilante, preferisco l'esempio di Men In Black, dove il nostro vicino potrebbe nascondere un profugo extraterrestre protetto dal Governo.
Così a volte provo a osservare gli eventi normali come se fossi un alieno capitato qui per caso e la conclusione è sempre la stessa: ragazzi, uno scrittore di fantascienza ha vita davvero difficile, tutto quello che c'è di assurdo e incredibile già lo abbiamo trasformato in ovvio e quotidiano! E, sì, spesso è anche orripilante. Capita.

mercoledì 14 settembre 2016

Il girasole improbabile

  E45, subito dopo l'uscita per Umbertide, direzione Roma. Dal mio lato la strada ha una doppia corsia, poi un cordolo bruttino di cemento e di là le altre due corsie in senso opposto. Intorno campagna e colline.

  Beh? Beh: le improbabilità. Stavo giusto ponzando su quanto sia improbabile per me, impiegatuccio anonimo famigliodotato, riuscire a mantenere un biplano impegnativo come Greta, che ecco là la risposta. Alla base di quel cordolo di cemento tra le carreggiate opposte.

  Di solito nelle fessure tra cemento e asfalto nasce qualche ciuffo d'erba, al massimo un tarassaco i cui soffioni sono spazzati via giovanissimi dalla turbolenza delle vetture in corsa.
  Stavolta invece no: mi dà le spalle addirittura un girasole.
  L'improbabilità.
  Una pianta giovane ma alta, con il fiore ben aperto pronto ad abbronzarsi appena le nubi lo permetteranno. Al centro dell'autostrada, contro ogni logica, contro ogni probabilità.

  OK, è un caso assurdo. Ma che insegna a non scrivere i propri piani secondo le probabilità di successo altrimenti ci precluderemmo la possibilità di farci sorprendere.
  Forse quindi Greta passerà un lungo e radioso futuro con me. Contro le probabilità.

  E mentre inizio a dirmi che la penso così perché mi fa comodo, perché sto tornando da un meraviglioso week end di volo sulla costa veneta dove ho vissuto i miei sogni (improbabili pure loro, e ormai avverati come quel girasole), mentre mi dico che il problema è nei conti entrate-uscite che i numeri mica giocano, ecco che abbasso lo sguardo. Il GPS mi dice i chilometri che mancano: 123. Il contachilometri parziale mi dice quelli che ho fatto: 456.
  Va bene, mi arrendo. Quante probabilità c'erano di pensare che i numeri non giocano e subito dopo abbassare l'occhio nel momento dell'123 456? (Tante, lo so, inconsciamente i miei occhi avevano già visto quei numeri e mi hanno convinto ad abbassare lo sguardo... No, OK. mi sto zitto.)

  Mi arrendo. Non valuto più le probabilità per prendere la decisione.
  E un attimo dopo il cielo con le nubi arancioni del tardo pomeriggio si accende di saette e lampi, nastri elettrici che adornano il cielo di luci pure, in uno spettacolo unico di archi proprio sopra la mia strada che mi accompagnerà sino a Fiano Romano.

  Mai mettere in dubbio l'improbabilità. E' il potere di farci sorprendere. OK Greta, ho capito. Grazie.

giovedì 7 aprile 2016

Faccio coming out.

  OK, faccio coming out. E' corretto.

  Chi mi conosce sa già che, secondo la visione comune, ho pensieri contro la "normale" natura umana, faccio cose per cui il mio corpo non è stato creato, ho desideri contro natura che mi fanno sentire vivo.
  Non è difficile vedermi in atteggiamenti che rendono chiare le mie tendenze e molti l'hanno notato. Quindi eccomi qui a fare coming out una volta per tutte, a dire chiaramente che no, non sono "normale", non ho nemmeno provato ad esserlo e se per questo mi viene chiesto di sentirmi un malato di mente, no grazie, c'è qualcosa di sbagliato e non è in me.

  Ecco, lo dico chiaramente: vado contro natura, è vero.
  Mio padre mi ha accettato, lui con la sua cultura all'antica non lo farebbe mai e all'inizio ha avuto problemi ma l'ha accettato e anzi ora è pure orgoglioso di me, di come vivo questa vita difficile di diverso dagli altri coetanei che vivono coi piedi per terra.
  A me piace volare.
  Sì, l'ho detto. Volare. Contro natura ché noi non siamo fatti per volare, contro la morale comune ché non si buttano così soldi e vite, contro lo stesso istinto di sopravvivenza. Con parapendii, biplani ultraleggeri, se serve ombrelli aperti, simulatori o solo fantasie (e no, ho le prove, usare tanto i simulatori non fa diventare ciechi).

  Vorrei gli stessi diritti degli altri e magari un giorno io e gli altri anormali riusciremo a ottenerli: hangar a prezzi di garage, facilità di trovare benzina nelle aviosuperfici, la possibilità di circolare più liberamente senza essere relegati in spazi aerei di serie B (anzi G) sotto gli aerei "normali", non doverci nascondere ogni volta che il Papa si affaccia e ci lancia contro un NOTAM, non essere più cacciati dagli aeroporti per ghettizzarci in campi fangosi come se si vergognassero di noi, non dover frequentare squallide club house private per trovare altri come noi.
  Magari un giorno, magari presto.

  Ecco, ho fatto coming out, mi ci è voluto coraggio e so di aver dato delusioni a chi mi conosce superficialmente ma io sono così: sono un diverso, mi piace volare, non posso farci nulla e non è una malattia. Spero di poter essere d'esempio ad altri e di leggere altri coming out, ora che l'ho fatto già mi sento più leggero e, si sa, essere più leggeri significa volare meglio.


Gianni

:D :D :D

martedì 29 marzo 2016

Astronauti e fumatori eccezionali



Treno, 7:30, verso l'ufficio. Leggendo l'autobiografia di Cheli, l'astronauta, che raccontava quanto gli fu difficile passare dalla seconda media nel paesino emiliano alla terza media nella grande Bologna. E poi eccolo là a fare missioni nello spazio. Mentre leggo si siede accanto a me un signore, 40-45 anni, giaccone rosso, puzza di sigaretta insopportabile, vecchi libri in mano. Chiama la mamma al cellulare e poi una scusa e si inizia a conversare. Io non sono mai ben disposto con chi mi interrompe una lettura, specie se puzza di fumo, ma l'antipatia dura poco: dai treni si passa alla politica, alla droga e infine all'amico morto per overdose conosciuto in comunità. Sì: perché il mio compagno di viaggio ha vissuto gran parte della sua vita in una comunità "voluta dal dr. Basaglia, legge 180" mi precisa, e ora vive in una casa famiglia. Problemi mentali non precisati, di cui resta un segno nel modo di parlare e nel muoversi più del dovuto sul piccolo seggiolino. Legge vecchi libri di politica e storia, si dichiara un rivoluzionario pacifista, difende gli animali, ahimé sceglie di non andare a votare. Parla tanto, si muove troppo, puzza come una discarica per posaceneri. Insomma, una persona da cui la maggior parte della gente si siede lontana: invece alle mie domande sulla vita in comunità si è illuminato e il libro di Cheli, l'astronauta che aveva problemi in terza media, è diventato banale. E poi con orgoglio mi ha detto che un giorno è diventato tanto autonomo da essere messo in uscita dalla comunità, fare addirittura un corso per office automation ("i computer" precisa) a piazza Bologna, un corso durato un intero anno. "Ora - mi dice con un evidente orgoglio - so passare le fotografie dalla macchinetta fotografica al computer". Alza un dito a sottolineare con fiera competenza: "Col cavetto".
Gente così merita ogni bene, ogni augurio. Sono stato felice di aver avuto vicino quella puzza di fumo stamattina, con buona pace del libro di Cheli. Gli ho fatto i miei migliori auguri e lui li ha fatti a me. Raggiungere i propri traguardi misurati col proprio metro, esserne orgogliosi. Andare a lavoro con lo stesso impegno e fierezza con cui si va nello spazio. Se mai andrò nello spazio difficilmente ripenserò alla terza media di Cheli ma ogni volta che sposterò foto dalla macchinetta fotografica al computer ("col cavetto") senza dubbio penserò a questo incontro, e saprò che per qualcuno ciò che riteniamo banale è una meta conquistata con orgoglio.

L'ho seguito con lo sguardo perdersi nella folla della metro a Piramide, unico giacchetto rosso tra il fiume di uniformi eleganti e tanto grige. Auguri, fumatore. Grazie per l'invasione.

venerdì 8 gennaio 2016

Il bruconcetto

  E' solo una sensazione, certo, ma ho trovato il modo di esprimerla.

  I bruchi. Prendi i bruchi. No, non con le dita: intendo il concetto. Sono vermi (che gli zoologi mi perdonino la semplificazione), fanno una vita da vermi misurandola con una scala da vermi, poi a un certo punto smettono di mangiare, non gli va più di muoversi, si rinchiudono sempre più soli e scompaiono alla vista. "Era tanto buono". Macchè, ovviamente eccoli tornare. Riaprono tutto e hop saltano fuori. Solo che non sono più vermi, sono qualcosa di splendido e completo come non lo erano mai stati, sono finalmente ciò che erano destinati a diventare. E magari gli altri bruchi non li riconoscono nemmeno. "Ma sono io, sono Mario!" "Oh splendida creatura, non mi prenda in giro solo perché sono un insignificante bruco, Mario è morto, l'ho visto io chiudersi e smettere di mangiare"
  Ecco.

  Ora lasciati contagiare dalla mia fantasia malata e immagina, per un attimo, che anche noi siamo bruchi. Facciamo la nostra vita gustosa ma strisciante. Però immagina che ci manchi qualcosa nella vita per cui il processo di trasformazione in ciò di splendido e completo che dovremmo davvero essere sia ormai compromesso, perso. Continuiamo rassegnati la vita da vermi, circondati da cose importanti solo per i vermi, con un vago malessere per qualcosa di più completo che ci manca, sino alla fine.

  Non so come si possa chiamare questa sensazione ma sta lì e finalmente gli ho dato una forma.
  E ora vado a rosicchiarmi una foglia a mensa.

martedì 18 agosto 2015

Prima Direttiva un corno

  Partiamo dalle basi, quelle sono facili.
  Una civiltà primitiva quando entra a contatto con una civiltà più progredita soccombe. E non disturbiamo Pizarro e la sua mandria di fucilieri sportivamente a caccia di indios o i cartelli vendesi schiavo nero semiusato a prezzo di realizzo. Prendiamo proprio il caso del paesino del Nepal che diventa meta turistica, improvvisamente le capre non sono più ragione di vita, diamogli cinque anni e vedremo cellulari, parabole e ADSL tra le priorità della popolazione.
  Sei primitivo? Io sono tecnologicamente avanzato. Piacere e condoglianze.
  Su Star Trek l’hanno risolto con la Prima Direttiva: “mica è bello entrare in contatto con civiltà poco progredite, finiremmo col cambiarle e renderle simili a noi o altri disastri”.
E anche noi crediamo che sia una cosa mostruosa quando una società avanzata distrugge una società meno dedita a cose come la tecnologia, l’ansia, la fretta e il creare code ai caselli autostradali nei ponti festivi: insomma una civiltà primitiva. :)

  Mi è venuto da pensare che invece noi abbiamo più e più volte distrutto società meno avanzate, e saremo distrutti a nostra volta da qualcosa di superiore che verrà. E questo non solo sta bene a tutti ma viene apprezzato e agevolato.
  Mi spiego: c’era una società agricola e di artigiani che è stata distrutta nello scontro con una società che aveva inventato le macchine a vapore e i turni in fabbrica. La società che aveva fatto dei cavalli il proprio mezzo di trasporto riempendo il mondo di abbeveratoi, stalle, maniscalchi e carrettieri è stata colonizzata e spazzata via dall’incontro con la società che usava i motori a scoppio e i treni, e questi colonizzatori hanno distrutto abbeveratoi stalle eccetera sostituendole con benzinai, asfalto, caselli autostradali, parcheggi e assicuratori. Così una società basata sulla meccanica capace di creare la pascalina e il contometro è stata annientata da una società che le ha presentato l’elettricità, e questa a sua volta si è arresa sino all’estinzione di fronte a una civiltà che usa l’informatica ovunque, tanto che oggi non esiste nulla senza processori e programmi.
  Sono esempi a caso ma ogni volta che qualcuno ha fatto fare un balzo avanti alla tecnologia lungo strade nuove ecco che il risultato è stato lo stesso che se avessimo incontrato una civiltà più progredita: prima eravamo su una strada che conoscevamo sin troppo bene, vedevamo dove andava e come ci andava, e di colpo un bivio, si cambia percorso, ci si scontra con il nostro futuro e si soccombe ad esso.
  A ogni balzo tecnologico in avanti è come se due società, la vecchia e la nuova, si scontrassero ed entrassero in competizione per una vittoria scontata. Quindi siamo stati invasi mille volte da noi stessi, mille volte abbiamo dovuto soccombere per lasciare il dominio all'invasore più progredito.


  Probabilmente siamo l’unica specie vivente orgogliosa di colonizzarsi da sola continuamente.

venerdì 7 agosto 2015

Quando le tigri volano

  OK, la mia vita sta cambiando. Capita. Di più: incredibilmente capita che stia cambiando in meglio.
  E questo video, le persone, le macchine, le emozioni e i paesaggi sono parte della mia nuova vita.

  Grazie Mila, grazie ali e tiranti, grazie ai sogni e alle coincidenze.
  Ragazzi, si vola! E un giorno (prossimo) ne scriverò. :)

  (il video è di Max De Meo: mica male, vero?)


mercoledì 26 febbraio 2014

Quello che serve

  È tutto qua.
  Prendere un tè nella cucina in penombra e sognare un po’. Sorridere tra un sorso e l’altro.
  Sognare le cose meravigliose, non quelle che sarebbero potute accadere, no, proprio quelle che accadono. Ora, qui.
  Un tempo c’erano sogni. In quanto tali, irrealizzabili. Poi con un po’ di incoscienza eccoli diventare progetti. E la strada è presa, il mondo improvvisamente è diventato più bello. Infine eccoci, ora non sono nemmeno più progetti: sono realtà. Cose belle che, come frutti maturi, cadono dall’albero proprio tra le mani. Sogni di fumetti di biplani, di concerti da vivere, di racconti vestiti a festa, di voli e di aerei. Oggi Franco sulla sua falciatrice a motore aveva ricoperto l’aviosuperficie del profumo magnifico dell’erba appena tagliata, il lago sotto le nubi era uno specchio di piombo vecchio e lame di luce, gli hangar cominciano a conoscere i miei passi e io i loro odori, quando entro non sono più uno straniero. Qualche aereo potrebbe anche chiamarmi per nome. Eh sì. Presto anche io potrei cominciare a chiamare un aereo per nome.

  Ho appena finito di prendere un tè persiano nella penombra della cucina, sorridendo ai sogni che sono diventati realtà. Ci sono anziani che sorridono allo stesso modo per i loro ricordi più belli vissuti in un passato lontano. Io sorrido per oggi. Per tutte le cose belle che accadono, frutti che cadono, tanti da rendermi difficile riuscire a stare dietro a tutto. Ho eliminato Facebook, non ne ho il tempo, ho persino smesso di scrivere mail, spero che gli amici più cari possano capire.
  Ogni giorno prendo un tè nel pomeriggio, da solo o con le donne della mia vita. Nella cucina in penombra, sorridendo. E credo che, davvero, sia tutto qua. Quello che serve per essere felici.


martedì 31 dicembre 2013

ipocriṡìa (ant. ipocreṡìa e pocriṡìa) s. f. [dal gr. ὑποκρισίη, forma rara per ὑπόκρισις «simulazione», der. di ὑποκρίνω «separare, distinguere», e nel medio ὑποκρίνομαι «sostenere una parte, recitare, fingere»].


  Maddavero?! Mi chiedono di non usare fuochi d'artificio illegali, fabbricati in Cina da schiavi spesso minorenni, importati di contrabbando, usati da gente che finisce al pronto soccorso con menomazioni spesso gravi su di sé o sui propri figli, e mi chiedono di non usarli... perché spaventano i cani? :D

  (No, non sono polemico. Se volessi essere polemico farei notare che sul 90% delle immagini di auguri di buon anno e sui filmati ci sono fuochi d'artificio, esplosioni, luci. E comunque non mi tange, la prima volta che farò esplodere della polvere pirica sarà al primo giorno della rivoluzione, con buona pace dei cani)

P.S.: buon nonsobenecosa© a tutti! :)

sabato 28 dicembre 2013

Diamo i numeri. Pepe e l'iPhone.

  Non è bello fare i conti ma a volte capita, per sbaglio, di trovarsi in mezzo a un conto scomodo.

  Allora, è il 2013 ancora per un paio di giorni, poi anche questo numero cambierà insieme agli altri. Sì, i numeri cambiano. Viviamo in equazioni composte solo da variabili, dove ogni valore delle migliaia di variabili cambia di giorno in giorno, e non è facile smettere di comportarsi intuitivamente e accorgersi di quanto sia difficile fare i conti.
Cambia l’anno, cambia la data, cambiano i prezzi e le età. Oggi ho 49 anni, c’è un treno per Roma ogni 10 minuti, sto pensando di prendermi un esagerato iPhone 5S con contratto telefonico a 289 euro più 30 al mese per 30 mesi. Poi unisco i numeri. Io guadagno 1600 euro al mese, grazie al cielo, e lavoro 40 ore a settimana. Quasi sette giorni di fila in ufficio ogni mese. Ogni giorno di lavoro porta via almeno un’ora e mezza di viaggio tra andata e ritorno, ma questo non lo conto anche se sono ben 30 ore a mese che vanno in beneficenza. il conto è facile: 1600 euro per 160 ore: nonostante la busta paga dica cose bellissime, io guadagno 10 euro all’ora. Dieci euro. Un libro economico costa 10 euro. Cinque litri e mezzo di benzina sono dieci euro. La mia Kangoo con un pieno di 50 litri di gasolio fa 800 chilometri. Quando era nuova ne faceva 900. Quindi con 10 euro fa 88 chilometri. C’è una certa armonia in questo: io ci metto un’ora a guadagnare 10 euro e 10 euro mi fanno camminare l’auto per un’ora. Come i criceti nella ruota, la ruota gira solo lo stesso tempo in cui loro corrono.

  Ho pensato di comprarmi l’iPhone 5S, vero. Un vezzo, un altro numero che cambia: sostituirei il mio iPhone 4, non che non mi soddisfi, ma alcune caratteristiche del 5S mi piacciono davvero. Oddio, potrei vivere anche senza, certo, lasciando il 4 come costante anziché come variabile, ma perché?
Però sto facendo i conti. Purtroppo. E i conti sono semplici. Per prendere il 5S dovrei pagare 29 ore di lavoro subito, più 3 ore ogni mese per i prossimi 30 mesi, totale 119 ore di lavoro, 119 ore chiuso in un ufficio che non mi piace davanti a un computer che non mi piace a fare cose che non mi piacciono per sostituire a una variabile il numero 5S al posto del 4.
Comincio a pensare che sono a un passo dal dare i numeri.
Se devo fare i conti fino alla fine dovrei fregarmene dell’iPhone nuovo e contemporaneamente cambiare lavoro, il che significa cambiare vita, ma tanto della mia vita ho cambiato quasi tutto, manca solo il lavoro e poche altre briciole, è quasi il 2014, le mie chiappe sono stampate sui sedili dei treni per Roma che passano ogni 10 minuti, tanti numeri sono cambiati e molti ora sono proprio quelli che mi piacciono. Un 5S al posto del 4 in cambio di 119 ore di lavoro no, in effetti non mi piace. Che potrei fare in 119 ore? Un corso di volo prevede 16 ore di pratica e circa 30 di teoria, un corso di produzione musicale è di 7 ore, andare in spiaggia a godersi un tramonto impegna un’ora e mezza. 119 ore? Non non più abituato a capire quanto siano enormi 119 ore, quante cose strepitose possano nascere in quel tempo. Non sono più abituato perché, accettando di gettare 160 ore al mese in un lavoro al terzo posto della lista "questo non lo farò mai", il senso della misura ha avuto un infarto.

  E, dopo aver partorito questo ragionamento, leggo per caso un brano di quel genio di Mujica dove dice che lui tramuta tutto non in soldi ma in ore di lavoro necessarie a fornire quei soldi, arrivando alla conclusione che potrei tradurre con “io non avrò mai un iPhone 5S e ne sono felice”. Wow. Ho avuto un ragionamento quasi simile al grande Pepe Mujica. Mi piaccio. Anche se lui l’ha detto meglio:

La mia idea di vita è la sobrietà. Concetto ben diverso da austerità, termine che avete prostituito in Europa, tagliando tutto e lasciando la gente senza lavoro. Io consumo il necessario ma non accetto lo spreco. Perché quando compro qualcosa non la compro con i soldi, ma con il tempo della mia vita che è servito per guadagnarli.
“E il tempo della vita è un bene nei confronti del quale bisogna essere avari. Bisogna conservarlo per le cose che ci piacciono e ci motivano. Questo tempo per se stessi io lo chiamo libertà. E se vuoi essere libero devi essere sobrio nei consumi. L’alternativa è farti schiavizzare dal lavoro per permetterti consumi cospicui, che però ti tolgono il tempo per vivere.”


  Ora voglio vedere cosa mi inventerò il giorno in cui sarò in grado di coronare il mio sogno di acquistare un biplano. :)