venerdì 25 maggio 2018

Prima l'Italiano. Per favore.

Ci sono diverse semplificazioni con cui posso essere d'accordo.
  "Prima gli onesti" per esempio. Già con "prima chi ha diritto" non mi sento a mio agio perché spesso i diritti sono assegnati in modi opinabili. Preferisco di gran lunga "prima chi ha più bisogno". Quasi mai chi ha più bisogno è chi ha più diritto.
  Una semplificazione che da tempo piace a molti è "prima gli italiani". Immediata, diretta: a casa propria siamo noi ad avere tutti i diritti. Ma, come dicevo, i diritti sono opinabili, tant'è che sparare a un malintenzionato che ci si è intrufolato in casa viene ritenuto un diritto da alcuni e una mostruosità da altri. i diritti sono come i pareri, non sono mai universali. Insieme alla morale (e alle risposte, dice Kulekov, e alla realtà, dice un saggio proverbio indiano) cambiano con i tempi e con i luoghi.
  A casa nostra siamo noi ad avere tutti i diritti. O almeno le precedenze. Ma una casa è una proprietà, qualcosa che abbiamo deciso noi di avere, qualcosa per cui ci siamo sacrificati guadagnando il necessario per affittarla o acquistarla. L'Italia davvero è la nostra casa? Che cosa abbiamo fatto per essere italiani, quando abbiamo deciso di diventarlo, quali sacrifici abbiamo pagato?
  La realtà è che un italiano è italiano per puro caso. Per un periodo chi nasceva in Etiopia era italiano. Questione di caso e di confini. E si possono assegnare diritti in base al caso? Folle.
  "Prima gli italiani" la trovo una semplificazione immonda. Tanto vale dire "prima i biondi" e segregare chi ha i capelli rossi. "Prima chi è più alto di 1,70". 
Ma – è lecito opinarmi – molti extracomunitari vengono qui a delinquere, o anche solo a prendere i soldi dello Stato. Ecco: allora il problema non sono  gli extracomunitari, almeno non  quelli che esercitano il loro diritto di sopravvivere fuggendo da condizioni che noi per primi non accetteremmo mai e affrontando viaggi infernali verso Paesi stranieri che non li vogliono. Anche i miei antenati fuggirono dalle Marche per trovare fortuna in America nei tempi difficili, nei tempi in cui i nostri migranti venivano trattatati come pidocchi e mafiosi solo perché il caso non li aveva fatti nascere negli Stati Uniti. No: il problema sono i disonesti. Quindi "prima gli onesti" identifica la vera soluzione, anche se inutilmente visto che "prima gli onesti" promette ciò che da sempre la Legge ha il dovere di garantire. Ma di certo "prima gli italiani" non ha senso. Conosco stranieri stupendi e onesti con cui sono felice di condividere la mia città, e conosco italiani con cui mi vergogno di spartire la nazionalità. Un condannato riconosciuto in affari con la Mafia dal Tribunale siede al Governo e parla con il nostro Presidente mummificato. Il problema sono i disonesti, altro che "prima gli italiani".

E ora basta col pippone antirazzista.
  Era solo una scusa per attirare l'attenzione su questo slogan creato per accalappiare i voti delle menti semplici facendo leva sulla rabbia e sui diritti (ahi, sempre i diritti) che abbiamo per nascita (e quindi non meritati).
Perché vorrei fare mio questo "prima gli italiani" trasformandolo poco poco nell'ortografia ma profondamente nel senso:
  "Prima l'Italiano".
  Ecco.
  Essere italiani è un caso. Parlare italiano è una cultura. Lo abbiamo studiato, ne siamo diventati padroni, ne assaporiamo la storia e l'evoluzione: hai mai letto... "Dante?" viene da pensare. E no, Dante l'ho apprezzato per la sua fantasia narrativa, forse per il suo ruolo storico, certo non per il linguaggio che trovo poco incline al mio gradimento. No: hai mai letto Giovannino Guareschi? Autore più recente, di cui possiamo godere meglio il costrutto delle frasi, i tempi delle immagini dipinte con parole che stiamo dimenticando ma a leggerle appaiono in tutto il loro splendore mostrando una grandezza che stiamo perdendo.
  E perché la stiamo perdendo?
  Per tre motivi. Dai, mettiti l'anima in pace che te li spiego.

Primo motivo: la brevità imperante.
  L'Italiano non è fatto per essere interrotto. Non è come l'inglese, dove con poche sillabe descrivi tecnicamente un quadro. Ho sempre in mente il ritornello di una canzone popolare che nella versione originale cantava su tre sole note "please don't go", ossia un lunghissimo "per favore non andartene via" che trasforma l'abbaiare di tre note in un discorso dove poter mettere accenti, espressioni, dove ogni parola ha un senso unico. Nella versione italiana quella canzone recitava sulle stesse tre note un semplice "sì o no", perché l'italiano in tre sillabe sa dire poco. "Ti amo è di tre sillabe e vuol dire tanto". No ragazzi, "ti amo" è uno stereotipo vuoto come tutte le espressioni brevi nella nostra lingua: vuol dire tanto, che so, "hai cambiato il mio mondo, mi hai reso vivo come non sono mai stato e non riesco a pensare di restare un solo secondo senza i tuoi occhi in cui perdermi". Questo acquista valore. Non la breve frase standard per comunicare uno stato emotivo classificato in modo spersonalizzato e universalmente accettato a creatività zero.
  Dicevo: l'italiano è una lingua per veicolare sentimenti ed elucubrare approfondimenti. Usa frasi lunghe e finché ha mantenuto il ruolo appena descritto la sua evoluzione non ha mai portato a un accorciamento delle frasi. L'italiano è come una sinfonia emotiva, completa e artistica, quando invece l'inglese è un motivetto pubblicitario diretto, crudo e breve.
  Ma il mondo è trainato dall'inglese, come vedremo nel terzo motivo per cui stiamo perdendo la grandezza della nostra lingua, e l'inglese è sintetico, non permette orpelli, va diretto al nocciolo della comunicazione. L'informatica è nata in lingua inglese e ha conquistato il mondo. Finché sono i linguaggi di programmazione a soccombere al dominio dell'inglese bene, sono contento: l'inglese è una lingua essenziale, cruda, tecnica, discretamente precisa. Per un linguaggio informatico è quasi perfetta. Ma poi con l'invasione dei social (eccomi soccombere al dominio inglese) l'inglese ha fatto da stampo per ogni esigenza: SMS di 256 caratteri, Twitter che nasce sugli SMS fa suo questo limite, su Facebook si può scrivere in ridicole porzioni di schermo, e così via. Certo: in inglese il fenomeno please don't go rende superflui gli spazi enormi, basta poco per descrivere i nostri pensieri semplificati e spogliati di ciò che non è essenziale.
  Ma in italiano no. Però ci siamo adeguati, abbiamo iniziato a usare WhatsApp e messaggistiche da telefonino dove la brevità è un'esigenza, messaggi di dieci righe sembrano ormai enormi. Questo commento che sto scrivendo è troppo lungo, richiede tempo per leggerlo e sono sicuro che dei tre lettori che ho forse uno arriverà sin qui ma gli altri avranno già rinunciato: perché abituati a scrivere poco, a semplificare all'osso cadendo negli errori come con "prima gli italiani", ora siamo anche abituati a leggere poco. Intendiamoci: leggiamo miliardi di messaggi, di notizie, di commenti, che messi insieme formano un volume di parole ben più lungo di un libro. Guardandola in questo modo potremmo dire che mai l'umanità ha letto né scritto così tanto, ogni fascia sociale è persa nel suo telefonino e legge, legge, scrive, legge e legge. Ma ciò che viene letto sono solo ciliegie che non saziano, concetti brevi non approfonditi, che si scorrono in un attimo e l'attimo dopo si passa al concetto-ciliegia successivo. Sviscerare – come la nostra lingua così prolissa richiede e invita a fare – significa, per fare un paragone alimentare, masticare quella ciliegia anziché mandarla giù sana, significa prepararla a essere digerita, a entrare a far parte di noi. Se non svisceriamo l'argomento è come se ingoiassimo il frutto con tutto il nocciolo col risultato poi di trovarlo tale e quale nel nostro cesso (cesso: parola di italiano corrente, erroneamente ritenuta volgare, a cui le mode hanno sostituito l'errore inglese di water, cioè acqua, che nella lingua originale si completa in water closed, acque a circuito chiuso, tecnico e descrittivo dell'ingegneria del sistema usato come solo l'inglese sa fare, da noi riportato parzialmente privandolo di ogni senso e sostituendolo a un termine preciso preesistente, cesso. Mark Twain si arrabbiava quando qualcuno lo chiamava solo "Mark" o "mister Twain" visto che il suo soprannome indicava l'urlo dei battellieri che scandagliavano il fondo del fiume per vedere se la profondità permettesse allo scafo di passare e "segna due!" era l'urlo del misuratore che indicava la profondità minima per la sicurezza del battello: dire solo "segna" o addirittura "signor due" era senza senso, parimenti dire solo "water" o solo "closed" è, come anticipavo, un errore.)
  Torniamo a noi. Leggiamo più che in ogni altra era ma non digeriamo nulla di quello che ingoiamo. Ma è il ritmo della vita, quello che pian piano è diventato la normalità, il quotidiano. Eccesso di informazioni, tutte brevi e autoconclusive, superficiali. Ogni settore della società si è uniformato: hai visto i siti dei quotidiani? I giornali, che nell'impaginazione cartacea hanno in prima pagina poche notizie, con grandi articoli e foto esplicative, una volta in rete eccoli trasformati in grosse pagine piene di piccoli riquadri zeppi di notizie, ognuna descritta in pochissime righe, con immagini ridondanti messe lì quasi a sostituire il testo che non c'è stato spazio per scrivere. E il telegiornale in TV? Mentre l'annunciatore parla e i servizi scorrono c'è in basso una barra con le micro-notizie; la nostra attenzione viene divisa tra l'ascolto e la lettura che raccontano di cose differenti, abbiamo l'attenzione in preda alla schizofrenia e chi ne paga le conseguenze è la capacità di apprendere e gestire le informazioni ricevute.
C'è un risvolto clinico in questo: l'eccesso di informazioni unito all'incapacità di gestirle provoca depressione, stress, nervosismo. E vediamo che negli adolescenti i casi di depressione, ansia, crisi di panico, problemi comportamentali non sono mai stati così alti. Ci sono anche altre ripercussioni: hai mai notato in pizzeria gruppi di ragazzi che anziché dialogare tra loro sono tutti persi nei propri cellulari? Ma questo, come l'aumento di danni alla cervicale per postura scorretta continuativa, non ha a che fare con la lingua italiana, oggetto di questo testo, quindi torniamo sull'argomento.
  Ci siamo abituati al breve, al molteplice, al mordi e passa al prossimo. Alla superficialità. E questo si ripercuote sulla nostra lingua. Più che le abbreviazioni da SMS che tanto impensierivano i cultori della lingua, il problema è proprio nel messaggio, che richiede sempre più un mezzo simile all'inglese e si trova scomodo nell'italiano. Tanto scomodo da promuovere l'uso delle faccine, rapido metodo per veicolare emozioni, nate per la lingua inglese così arida e, ripeto, tecnica, che vanno sostituendo la necessità di formulare frasi più complesse.
  Insomma, andiamo verso una comunicazione votata alla brevità, all'efficienza pratica, alla superficialità, priva di inventiva e di emozioni originali (un cuoricino sostituisce molte parole ma che pena pensare alle splendide lettere dei miei nonni, lui al fronte e lei ad attenderlo a casa, riscritte oggi con le emoticon!). L'italiano non è adeguato, si rende necessario trasformarlo e perdere la ricchezza che rende questa lingua probabilmente unica, abbreviare le esposizioni e disimparare il piacere della lettura a favore dell'immediatezza del messaggio necessario e temporaneo. Stiamo perdendo la nostra lingua.

Secondo motivo: l'interruzione.
  Scrivevo proprio ieri a un carissimo amico. E gli scrivevo via mail anziché su WhatsApp, proprio per avvalorare la mia tesi. A parte il problema di poter sviscerare meglio i concetti su uno spazio come quello della mail, il sostituto della posta tradizionale, che ha lo svantaggio di perdere la gioia di osservare la calligrafia dell'interlocutore e in essa i segreti del suo carattere ma ha il vantaggio di poter più facilmente correggere gli errori nel testo prima della spedizione, a parte questo la messaggistica odierna ci ha portato un altro indubbio svantaggio: le interruzioni.
  Quando arriva un messaggio o una notifica o una richiesta di attenzione il nostro dispositivo elettronico è programmato per farsi notare. I suoni vengono studiati per non essere ignorati altrimenti il concetto di messaggistica immediata perderebbe di significato.
  Col risultato che in ogni momento i nostri pensieri possono essere interrotti dal trillo di chiunque, persona o applicazione, che decide sia il momento giusto per pretendere la nostra attenzione.
  Il solo pensare "non ora: lo leggerò poi" ha già interrotto il nostro filo di pensieri, ci ha distratti. E come abbiamo appurato l'italiano è una lingua riflessiva, che richiede i suoi tempi: non è compatibile con le interruzioni, le distrazioni. Se siamo in un ambiente pubblico ogni telefono di ogni persona urlerà la sua esigenza e immediatamente tutti i pensieri della gente intorno verranno catturati prioritariamente, costretti a ponderare anche un solo "no, non è il mio cellulare" prima di tornare liberi. Ma un pensiero interrotto non è come una pausa ottenuta premendo il pulsante sul telecomando durante un film: il film riprende dal punto esatto in cui si è fermato, il pensiero no, perde parte della sua strada, ne deve ricostruire una che non può essere la precedente, perde un po' dei riferimenti del percorso che ha elaborato sino a quel momento. Si impoverisce. Hai mai vissuto l'esperienza di scrivere una mail o solo un messaggio lungo e di perderlo prima di spedirlo, così da doverlo riscrivere da capo? Ecco, il messaggio riscritto ci porta nervosismo, insoddisfazione, è sempre più povero rispetto al primo messaggio. Così accade per i pensieri interrotti. Stress e un risultato inferiore al dovuto.
  Abituarsi a tale ritmo non significa sfuggire a queste brutte conseguenze: significa solo imparare a ignorarle, a renderle parte delle cose inevitabili, accettarle senza più prendere in considerazione né i danni che portano né le alternative. Rinunciare al nostro diritto di inseguire un pensiero in libertà.
  Io a casa scelgo di spegnere il cellulare, elimino le notifiche dal computer, mi dedico a quello che devo fare o a chi ho davanti dandogli la priorità assoluta. Mi rammarico quando parlo con un amico e quello, sentendo un messaggio in arrivo, apre il cellulare per leggerlo e magari per rispondere: ma quella è una sua scelta, non la mia, anche se interrompe pure me.
  La lingua italiana non è fatta per essere interrotta. Noi pensiamo usando la lingua italiana. Quindi i nostri pensieri non sono fatti per essere interrotti. Stiamo perdendo la lingua, stiamo perdendo la capacità di pensare, oltre quella di descrivere i nostri pensieri. Oggi non solo non potremmo più scrivere testi come quelli di Giovannino Guareschi ma c'è sempre meno gente che potrebbe leggerli.

Terzo motivo: l'invasione dello straniero
  E no, qui non parlo di nuovo di extracomunitari: anzi.
  Lo straniero nella lingua italiana è l'inglese.
  Io lavoro in un ufficio, ho a che fare con l'informatica. Sono bombardato da jobs, meeting, workshop, planning e così via. Ora, c'è davvero bisogno di questa invasione?
  Quando ho imparato a pilotare gli aerei il mio istruttore mi fece vedere la posizione per mettere la manopola del gas, l'equivalente dell'acceleratore di una automobile, nella posizione di idle. Poi si sentì in dovere di precisare: "non mi piace usare l'inglese ma a volte ha termini più brevi dell'equivalente italiano e mentre piloti può essere importante essere veloci a comunicare. Così ti dirò solo idle anziché chiederti di portare la manetta al minimo."
  A volte il termine inglese ha un motivo per essere usato. Molte volte invece lo si usa per pigrizia. Una volta bisognava fare uno sforzo mentale per trovare l'equivalente inglese di un concetto italiano: oggi spesso è il contrario. E più usiamo termini inglesi comuni là dove potremmo senza problema usare quelli italiani, più la nostra lingua si impoverisce. Ricordi 1984 di Orwell? Impoverire la lingua, standardizzare le espressioni, significa impoverire la cultura, la capacità di elaborare pensieri. Le parole sono i nostri strumenti, qualunque meccanico o artigiano se vede ridotti i suoi strumenti di lavoro sarà sempre meno in grado di lavorare.
  Gli extracomunitari che tanto preoccupano gli elettori non ci hanno rubato un solo pensiero, non ci hanno trasformato una sola parola.
  La lingua inglese viceversa ci ha impoveriti, uniformati, ci sta togliendo l'identità culturale, le peculiarità della nostra lingua. Parlare un italiano mozzato, interrotto, con locuzioni sostituite da standardizzazioni inglesi, è come vedere i nostri centri storici ormai tutti uguali dove campeggiano sempre le stesse catene di multinazionali a nascondere le peculiarità architettoniche con i loro loghi, neon, con merci che nulla hanno a che fare con quel centro storico. È un'invasione commerciale che pian piano copre i nostri colori sostituendoli con altri uguali in tutto il mondo, distraendo dall'architettura per colpirci con i prodotti in vendita. "Non guardare questa città unica, guarda la mia vetrina, questa con prodotti uguali in tutto il mondo. Non usare le peculiarità dell'italiano, sii breve e diretto con queste parole usate ovunque."
  Mia moglie mi fece notare come l'invasione fosse letale, sovrascrivendo persino il passato: la parola "media" ad esempio viene da tutti pronunciata all'inglese, "midia". Mentre deriva dal latino, e gli americani non sapendola pronunciare con la dizione originale l'hanno fatta propria. E non è il caso peggiore: non ti è mai capitato di leggere "aut aut" scritto "out out"?
  A volte si tratta solo di pigrizia, di accettare senza pensare quello che ci viene chiesto e di pagarne il prezzo senza rendercene conto. Ci sono stati movimenti contro un islamico che chiese di togliere il crocefisso dalle aule scolastiche come se questo ci privasse della nostra identità nazionale mentre non solo non facciamo nulla per arginare l'indottrinamento anglofono che ci ruba davvero il nostro modo di pensare ma lo incoraggiamo e ne abusiamo. (Una nota non ce la faccio a evitarla: il crocefisso in classe non è sintomo di italianità, anzi. È un accordo becero tra il fascismo e lo Stato straniero del Vaticano, è uno dei prodotti nefasti dei Patti Lateranensi. La religiosità di uno stato laico ha il diritto di essere manifestata, sì, ma nei luoghi di culto, non dove i nostri figli apprendono quale sia la verità scientifica e umanistica. Chiedere di togliere il crocefisso dalle chiese è un abominio, chiedere di toglierlo dalle aule, o se ce ne fosse bisogno dalle stazioni, o dalle cabine telefoniche, è una richiesta sensata. Lo scopo del Vaticano era inculcare ai piccoli l'idea che il cattolicesimo fosse l'unica verità, con l'inganno della monopolizzazione delle aule. Togliere l'insulso crocefisso dalle aule è un segno di rispetto non verso la comunità islamica ma certamente verso la nostra libertà di pensiero e di culto sancita dalla nostra Costituzione, e una condanna verso un regime fascista che ci ha imposto la dittatura anche con questi gesti coatti. Se poi pensiamo che gli italiani si identifichino col cattolicesimo, bene, ricordiamoci delle opposizioni che ebbe lo Stato Vaticano quando tentò di governare stralci del nostro Paese, ricordiamoci di come si sia sempre intrufolato a forza nei giochi di potere e per questo sia stato condannato dal popolo, e riflettiamo che se mai sia esistita una religione davvero italiana allora il cattolicesimo è un piccolo fenomeno collaterale rispetto all'imbarazzante politeismo di Giove e compagnia bella, l'unica religione che fu accettata dagli italiani secoli fa, politeismo di Stato che si trovò a combattere solo con la religione dei celti, molto più interessante ma relegata dalla storia a un ruolo più marginale.)

Sto diventando polemico, lo so. Quindi concludo con un piccolo manuale di sopravvivenza del pensiero libero.
  Usiamo gli strumenti adeguati alle nostre necessità, lingue incluse, ma valutiamo quali strumenti ci servono di volta in volta. Nel caso in cui una parola italiana e una inglese siano equivalenti, usiamo l'italiana. Per favore. Pensiamo a quale parola italiana potrebbe sostituire quell'inglesismo che ci è venuto subito alla mente per completare la frase.
  Facciamo pause, svisceriamo gli argomenti, freghiamocene delle esigenze della rete di cedere alla rapida superficialità. Scegliere la parola migliore è segno di rispetto per l'interlocutore, è allenamento per l'intelligenza, sviluppa la capacità di esprimere sempre più precisamente i nostri pensieri: e questo si ripercuote sulla nostra capacità di pensare.
  Arginiamo l'inglese. La lingua italiana ha delle regole per l'introduzione delle parole straniere: applichiamole. Ad esempio le regole grammaticali italiane non vengono mai sostituite da quelle della lingua straniera che ci accingiamo a usare. Nel plurale di computer per esempio dobbiamo dire "i computer", non "i computers". Sembra strano ma non lo è: da decenni il plurale di bar è sempre stato bar, il plurale di bus è bus e siamo vissuti felicemente senza affibbiargli la -s o la -es finale.
  Le parole straniere in un testo italiano vanno scritte in corsivo. Questo le identifica come intruse, come non facenti parte del nostro parlare, le ghettizza nella giusta misura. Questa regola grammaticale porta difficoltà, lo riconosco, perché molte parole come bar citata poco sopra ormai fanno parte integrante della lingua italiana (buffo: all'estero i bar, che qui chiamiamo con questo termine straniero, si chiamano con una parola italiana storpiata, cafè). Parole come computer, mouse, display sono parte del nostro linguaggio. E se la parola display può essere sostituita da schermo, sarebbe ormai ridicolo sostituire mouse con topo. Alcune nazioni lo fanno, in Spagna il mouse è el raton. Per noi è troppo tardi.
  Gli acronimi pronunciati in italiano seguono la dicitura italiana. C.S.I. è l'orrendo "si es ai" solo nei Paesi di lingua inglese ma da noi la grammatica pretende che sia "ci esse i". Stiamo pronunciando lettere, non parole straniere. Anni fa lavoravo all'helpdesk (in corsivo ovviamente) della mia azienda e i portatili avevano le porte PCMCIA. Era già orrendo pronunciare la sigla in italiano, prova a pensarla in inglese. Sono felice che siano sparite. Ora esistono grazie al cielo le "u esse bi" e nessuno qui si azzarda a chiamarle "iu es bi". Strano visto che alcuni acronimi sono duri da diffondere in italiano, come F.B.I., U.S.A., H&M.
  I nomi propri normalmente non vengono tradotti né scritti in corsivo: io sto scrivendo con un Mac Apple, non con un "pi ci" Windows, ad esempio. Essendo nomi propri non hanno traduzione nonostante usino parole che intendono anche oggetti comuni. Mark Twain non è Segna Due, io non sto usando una Mela al posto delle Finestre di Microsoffice. La traduzione in questi casi farebbe perdere il significato.
A volte si preferiscono termini inglesi piuttosto che parole italiane difficili, con la scusa che chi ascolta o legge potrebbe non conoscere la parola difficile: sbagliato. Meglio imparare una parola italiana, soprattutto se poco usata, piuttosto che ricadere in un luogo comune non italiano. Che oltretutto non tutti sono obbligati a conoscere.
  Se parliamo in inglese, bene, usiamo quella lingua al meglio delle nostre possibilità. Ma se parliamo in italiano usando inevitabili termini inglesi non siamo affatto obbligati a dimostrare al mondo la nostra conoscenza della lingua straniera, quindi seguiamo le regole dell'italiano e la pronuncia più comprensibile per un italiano. Io piloto un biplano Bücker (senza corsivo, è un nome proprio), se ne parlo con un tedesco uso la sua dicitura originale dove la ü suona un po' come u e un po' come i, ma se parlo con un italiano gli semplifico la vita dicendo Bucker con una u normalissima, come in "buco": non devo dimostrargli che conosco la pronuncia, devo fargli capire di cosa parlo. Nelle riunioni di lavoro dove c'è il purista che proclama in abbondanza i termini inglesi come se avesse una castagna bollente in bocca, alla maniera di molti americani, è evidente la mancanza del concetto che comunicare significa farsi capire.

Prima l'italiano.
  Ho scritto questo commento (stavo per chiamarlo post, ahimè) evitando parole non italiane dove ne avevo la possibilità, usando la tendenza di sviscerare l'argomento tipica del nostro linguaggio, cercando di usare le parole necessarie senza sconti e pensando che sto comunicando pensieri, non sfoggiando parole.

  In altre parole ho scritto un testo disperatamente fuori moda. Probabilmente è troppo tardi, siamo colonizzati, invasi, succubi di una lingua, di un modo di pensare che ci impoverisce. Ma nel mio piccolo dovevo dirlo: per favore, prima l'italiano.